La spada e il vuoto

La spada è stata protagonista della violenza dell'uomo sull'uomo fin dalla sua invenzione; solo recentemente, nella storia dell'uomo, il suo uso principale è diventato sportivo e ludico, perdendo il suo carattere sanguinario. Resta grande il suo fascino e si tramandano ancora le specifiche arti marziali sviluppate nel passato.



Scrivo questo dopo aver riletto (dopo molti anni) "Lo Zen e il tiro con l'arco". In questo volumetto la spada non è protagonista, in quanto non compare fino alle ultime pagine: il volume riporta infatti l'esperienza dell'autore (un filosofo tedesco trasferitosi in Giappone per alcuni anni) nell'apprendere la "Grande Dottrina" del tiro con l'arco tradizionale, strada intrapresa come approccio allo Zen.



In conclusione però, l'autore riporta in sintesi il contenuto del trattato di Takuan Sōhō (1573-1645, un monaco buddhista giapponese, una delle figure più rilevanti dello Zen), in cui si parla dettagliatamente del rapporto dello Zen con l'arte della spada e insieme della pratica di quest'arte. Un trattato scritto quando la spada e l'arte di maneggiarla potevano significare vita o morte per un guerriero.



Questo il brano, trascritto da "Lo Zen e il tiro con l'arco", di Eugen Herringel, trad. di Gabriella Bemporad, edizione Adelphi, 1975.


Forti delle esperienze fatte su di sé e sui loro allievi, i maestri di spada danno per provato che il principiante, per quanto forte e combattivo, per quanto coraggioso e intrepido sia per natura, all'inizio dell'insegnamento perde insieme alla spontaneità anche la fiducia in se stesso. Ora impara a conoscere tutte le possibilità tecniche che nel combattimento mettono a rischio la vita, e per quanto sia presto in grado di affinare al massimo la sua attenzione, di osservare acutamente il suo avversario, di parare a regola d'arte i suoi colpi e di fare degli assalti efficaci, si trova peggio di prima, quando esercitandosi alla scherma tirava colpi alla ventura, secondo l'ispirazione del momento e del suo ardore combattivo, un po' per gioco, un po' sul serio. Ora deve ammettere di essere inferiore a ogni avversario più forte, più agile e più esperto, accettare di essere esposto ai suoi colpi sicuri e spietati. Non vede altra via se non di esercitarsi indefessamente, e anche il suo maestro non sa dargli per ora altro consiglio. Così il principiante fa di tutto per superare gli altri e persino se stesso. Acquista una tecnica stupefacente, che gli restituisce una parte della sicurezza perduta e si sente sempre più vicino alla meta agognata. Il maestro intanto è di diverso parere — a ragione, ci assicura Takuan: che tutta l'abilità acquistata dall'allievo ha per solo effetto che «il suo cuore viene trascinato dalla spada». Ma l'insegnamento iniziale non può essere impartito altrimenti; è perfettamente adeguato al principiante. Non conduce tuttavia alla meta, come il maestro sa benissimo. Che l'allievo, malgrado il suo zelo e l'attitudine forse innata al maneggio della spada, non diventi un maestro di spada è inevitabile. Ma da che dipende se egli, che da tempo ha imparato a non farsi trascinare inconsideratamente dalla passione ma a conservare il sangue freddo, se egli, che sa calcolare avvedutamente la sua forza fisica, si sente temprato per un combattimento di lunga durata e tutt'intorno non trova che a fatica un avversario della sua statura, da che dipende tuttavia se, misurato con le misure ultime, fallisce e non va più oltre?

Questo dipende, secondo Takuan, dal fatto che il principiante non può fare a meno di osservare attentamente il suo avversario e la sua maniera di maneggiare la spada; che riflette a come attaccarlo nel modo più efficace e spia l'attimo in cui quello si scopra. Dipende, per dirla in breve, dal fatto che egli fa ricorso a tutta la sua arte e la sua scienza. Così facendo, dice Takuan, egli perde la «presenza del cuore»: il suo colpo decisivo arriva sempre in ritardo e perciò egli non è in grado di «volgere contro lui stesso» la spada dell’avversario. Quanto più farà dipendere la superiorità della sua scherma dalla sua riflessione, dal consapevole impiego della sua abilità, della sua esperienza e della tattica, tanto più ostacolerà il libero gioco dell'«azione del cuore». In che modo si ripara a questo? In che modo l'abilità diventa 'spirituale', in che modo la padronanza assoluta della tecnica si trasforma nell'uso magistrale della spada? Solo con l'abbandono dell'intenzione e dell'Io, è la risposta. L'allievo deve imparare a staccarsi non solo dall'avversario, ma anche da se stesso. Lo stadio in cui ancora si trova deve percorrerlo tutto, lasciarlo definitivamente dietro di sé — a rischio di naufragare. Non suona questo altrettanto assurdo di quando, nel tiro con l'arco, si pretende che si debba far centro senza aver mirato, che si debba dunque completamente perdere di vista bersaglio e intenzione di colpirlo? Si consideri tuttavia che quella maestria nella spada, di cui Takuan descrive la natura, ha fatto mille volte buona prova proprio in combattimento.

Tocca al maestro trovare non la via stessa che porta alla meta, ma la forma di quella via rispondente al carattere particolare dell'allievo e assumersene la responsabilità. Sua prima cura sarà di renderlo capace di schivare istintivamente i colpi, anche quando gli vengono portati all'improvviso. D.T. Suzuki [traduttore del trattato dal Giapponese all'Inglese], in un delizioso aneddoto, ha descritto il metodo estremamente originale con cui un maestro adempiva a questo compito tutt'altro che facile. L'allievo deve acquistare, per così dire, un nuovo senso o meglio una nuova vigilanza di tutti i suoi sensi, che lo renda capace di schivare i colpi che lo minacciano come se li avesse previsti. Divenuto padrone di quest'arte, non ha più bisogno di concentrare la sua attenzione sui movimenti del suo avversario o addirittura di più avversari alla volta. Ma, nell'attimo in cui vede e presente ciò che sta per avvenire, si è già sottratto istintivamente al suo effetto, senza che tra la percezione e l'azione vi sia «lo spessore di un capello». Si tratta dunque di questo: di questa reazione immediata e fulminea, che non ha più bisogno di osservazione consapevole. E così l'allievo, da questo punto di vista almeno, si è reso indipendente da ogni intenzione consapevole. E questo è già un grande acquisto. Ben più difficile, e in verità decisivo per l'esito, è il compito successivo: impedire che l'allievo rifletta e cerchi di scoprire il punto debole dell'avversario. Anzi, d'ora in poi non dovrà neppure pensare che ha a che fare con un avversario e che si tratta di vita o di morte.

L'allievo crede di aver compreso queste regole e da principio pensa — né potrebbe essere altrimenti — che gli basti rinunciare a osservare e a studiare tutto ciò che riguarda il comportamento dell'avversario. Egli prende molto sul serio la rinuncia richiestagli e si controlla a ogni passo. Ma così facendo non s'accorge che concentrandosi su se stesso viene a considerarsi come uno che sta combattendo e che deve evitare di osservare l'avversario. Per quanto faccia, segretamente l'ha sempre presente. Si è sciolto da lui solo in apparenza, ma in realtà si è legato a lui ancora più forte.

Occorre molta e finissima arte nella guida delle anime per persuadere l'allievo che con questo spostamento dell'attenzione in fondo non ha guadagnato nulla. Egli deve imparare a fare astrazione da sé altrettanto decisamente che dal suo avversario, e così spogliarsi radicalmente da ogni intenzione. È necessario molto esercizio paziente, molto esercizio infruttuoso, esattamente come nel tiro con l'arco. Ma se tali esercizi condurranno un giorno alla meta, l'ultimo residuo di intenzione — di sforzo consapevole — è scomparso, il distacco è raggiunto.

Il comportamento che s'instaura naturalmente in tale stato di distacco, di affrancamento dall'intenzione, ha una somiglianza sorprendente con la capacità di schivare i colpi raggiunta nella fase precedente. Come in quella, tra la percezione del colpo previsto e la parata non c'è lo spessore di un capello, così avviene ora tra la parata e la risposta. Nel punto stesso in cui schiva il colpo, il combattente già si appresta a colpire, e prima ancora che se ne renda conto il suo colpo mortale cala, preciso e irresistibile. È come se la spada si movesse da sola, e come nel tiro all'arco si deve dire che 'Si' mira e colpisce, così anche qui all'Io è sostituito il 'Si', che si serve delle capacità e della destrezza acquistata dall'Io con sforzo consapevole. E anche qui il 'Si' è solo un appellativo che si dà a qualcosa che non si può comprendere né raggiungere a volontà, e che si rivela solo a colui che ne ha fatto esperienza.

La perfezione nell'arte della spada consiste, secondo Takuan, in questo: che nessun pensiero dell'io e del tu, dell'avversario e della sua spada, della propria spada e del modo di usarla, e persino della vita e della morte turba più il cuore. «Tutto è dunque vuoto : tu stesso, la spada sguainata e le braccia che la guidano. Anzi, non c'è più nemmeno il pensiero del vuoto». «Da tale vuoto assoluto» afferma Takuan «sboccia meravigliosamente l'azione».

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